Paolo Portoghesi
in: La Casa di Mollino, IIC Paris, 2015
Carlo Mollino è oggi noto nel mondo soprattutto per le sue foto erotiche e perché ha progettato mobili di forme bizzarre, simili a strutture ossee che vengono venduti - i pochi non ancora acquistati da musei - a prezzi astronomici, come quadri di Picasso o di Klee. Eppure Mollino è stato architetto nel senso più pieno della parola, teorico e storico e anzitutto abile e raffinato costruttore. La generazione alla quale appartiene, in quanto nato nel 1905 è quella stessa di Terragni, di Gardella, di Ridolfi, di Rogers, di Albini, di Scarpa, gli architetti che si sono battuti perché l’architettura moderna si affermasse anche in Italia, con una sua autonoma identità. Tra questi architetti Mollino era il meno razionalista, il più originale e irrequieto, il più imbevuto di cultura letteraria.Barbaramente distrutto sotto i suoi occhi il suo capolavoro, la sede della Società ippica torinese, ridotta in condizioni penose l’altro capolavoro, la slittovia del Lago Nero, perduti quasi tutti i suoi arredamenti di gusto surrealista, venti anni fa sembrava che una sorte negativa, da architetto maledetto, rischiasse di cancellarne la straordinaria presenza dal panorama della architettura italiana; fortunatamente l’avvicendarsi delle mode e delle trasformazioni del gusto e l’opera assidua di Fulvio e Napoleone Ferrari e di Giovanni Brino lo hanno riportato alla ribalta, molte sue opere sono state salvate o reintegrate e il centenario della sua nascita è stata una occasione per cominciare ad affrontare il problema della sua collocazione storica. Mollino, esordisce come architetto nel 1933 con la sede della Federazione Agricoltori di Cuneo, ma sono gli arredamenti compiuti tra il ’37 e il ’45 che lo rendono famoso, pubblicati su Domus e su Casabella con la malleveria di Pagano e Ponti. Rispetto alla battaglia per l’affermazione del Razionalismo, combattuta dai suoi coetanei, Mollino appare orientato in modo diverso ; si ribella al conformismo minimalista e orchestra le sue immagini facendo ricorso a suggestioni letterarie, simboliche e persino alla citazione di forme tradizionali, pur dimostrandosi lontano le mille miglia dalla cautela dei tradizionalisti. La sede della società ippica torinese introduce nel rigoroso linguaggio razionalista impennate curvilinee, citazioni barocche, una libertà compositiva che sembra aprire una nuova stagione, proprio alle soglie della guerra. Pagano ne mette subito a fuoco la capacità inventiva : ”Egli ricompone lo spazio in rapporti nuovi –scrive Pagano nel 1941 – irrequieti, saturi di strane ed espressive tensioni interiori, come se si trattasse di una cosa animata e indipendente dalla volontà dell’artista o di un pretesto scenografico di luci e di ombre senza consistenze fisiche assolute”. «La sola cosa che deve preoccuparmi – scriveva Mollino nel 1940 – è il placare in espressione l’ossessione di queste forme che rimangono misteri finché non le hai chiuse finalmente come volessi tu – e come sentivi fosse doveroso e inevitabile»: una esplicita dichiarazione di fede nella formula crociana dell’arte come intuizione-espressione in cui il contenuto, il sentimento è “calato e fuso” nella forma. Dichiarazione di fede, maturata in giovinezza, ma mantenuta fino alla fine, che ci fa capire la specificità della figura culturale di Mollino e la sua differenza rispetto ai coetanei (come Ridolfi, Albini, Gardella, nati tutto nel 1905) che avevano accettato e difeso la loro qualifica di “razionalisti” e vedevano nell’architettura non solo una delle Arti, ma anche una disciplina tecnica impegnata nella trasformazione della società.Certamente Mollino aveva letto nel libro pubblicato dall’Editoriale Domus nel 1935, “Dopo Sant’Elia”, il saggio in cui Argan aveva affermato che «il tentativo di partire dalla praticità per giungere all’arte» era «fallito nel modo più assoluto», e aveva aggiunto: «si capisce, quindi, come questa teoria “razionale” della architettura, non abbia in sé nessuna possibilità teorica d’arte o, meglio, non indichi all’architetto nessun processo ideale che conduca all’arte … e in fondo non è una teoria, cioè un antefatto dell’arte, ma invece un post-fatto, cioè un tentativo di collocare alla meglio nelle esigenze contemporanee la propria creazione fantastica». Mollino è, tra gli architetti della sua generazione, il più sensibile al problema del superamento di una posizione, quella del Razionalismo che era, già alla fine degli anni trenta, in profonda crisi nell’intero orizzonte europeo e la sua scelta è fin da principio chiarissima: affrontare la crisi come artista seguendo il proprio istinto e le proprie intuizioni, affrontare il mistero delle forme che lo ossessionavano, tentando in ogni modo di “chiuderle”, e cioè definirle secondo un principio di necessità.La consapevolezza della fragilità della base teorica del Razionalismo, ben evidente nell’esordio creativo dell’Ippica torinese, si manifesta nel campo dell’arredo con la casa Miller e le case Devalle tra il 1938 e il 1940. La prima esperienza della casa per Ezio D’Errico invece si inserisce, senza differenze esplicite in una serie di arredi di architetti coetanei pubblicati da “Casabella” e da “Domus”. Un indizio importante per capire il cambio di indirizzo che avviene dopo la casa D’Errico e gli arredi successivi ci è dato dalla presenza, nella sua biblioteca, dei tredici numeri del “Minotaure”, la leggendaria rivista di Albert Skirà pubblicata dal 1933 al 1939, che si può considerare l’organo principale della cultura (non del movimento) surrealista. È vero che Mollino parlava del Surrealismo come qualcosa visto da molto lontano che qualcuno confondeva con lo spiritismo, ma non era questo il suo caso. Sfogliare le pagine del “Minotaure” è un po’ come passare in rassegna il mondo poetico di Mollino nella sua prima, clamorosa definizione. Gran parte delle sue passioni, dei suoi tic, delle sue “ossessioni” trovano perfetta rispondenza in quel meraviglioso archivio di esperienze e di immagini che la rivista ha raccolto per merito dei suoi maggiori collaboratori, da Picasso, a Eluard, a Dali, a Masson, a Matta, a Ernst, a Man Ray, a De Chirico, a Lacan.In modo particolare appaiono fondamentali per Mollino alcune caratteristiche precipue della cultura surrealista che trovarono nel “Minotaure” una straordinaria cassa di risonanza: la tendenza a mettere sullo stesso piano, in una prospettiva atemporale, l’arte contemporanea e l’arte del passato, scoprendo la “modernità” di artisti come Paolo Uccello, Tintoretto, Cranach, Friedrich; l’apertura alle suggestioni della psicanalisi; la rivalutazione di momenti dell’arte e della architettura che il razionalismo aveva cancellato e deriso, come il Simbolismo e l’Art Nouveau; la propensione a rivalutare i poetes maudits e la cultura del Decadentismo; il rinnovato interesse per l’ottocento ; l’interesse per l’astrologia, l’occultismo; il pieno riconoscimento infine del valore artistico della fotografia.Numerose sono le prove del debito diretto di Mollino verso il “Minotaure” anche se riguardano aspetti particolari mentre a mio parere l’incontro fu decisivo sul piano più generale della cultura di immagine ed ebbe come catalizzatore la profonda amicizia con Italo Cremona. Quando, nel 1948 Mollino pubblicherà il suo “Messaggio della camera oscura”, per esempio, una trentina delle grandi tavole antologiche sulla storia della fotografia sono tratte dalle pagine della rivista e se nel caso di Man Ray la cosa poteva essere scontata non altrettanto può dirsi per le foto di Alvarez Bravo al quale Mollino assegna nel suo libro un ruolo di tutto rilievo.Non meno significativa l’intonazione tra derisoria e nostalgica con la quale nel “Minotaure” viene spesso evocata la cultura d’immagine dei primi anni del Novecento e la sua vena di ingenuo erotismo (per esempio in un articolo di Paul Eluard sulle cartoline del 1905–1906). Rispetto all’analogo atteggiamento nostrano dell’amico Maccari, che dirigeva “Il Selvaggio”, la opzione di Mollino si dimostrerà assai più congeniale rispetto alla intonazione surrealista. Così appare estremamente interessante rileggere il saggio dedicato da Pierre Mabille agli specchi con le fotografie di Raoul Ubac, dove il tema, così importante per gli arredamenti di Mollino, è indagato, dal punto di vista psicanalitico, rispetto alle sue potenzialità narcisistiche, erotiche e relative al rapporto tra il soggetto e il suo doppio. Trascriviamo per il lettore alcuni passi significativi del saggio: «Si, grâce à l’habitude, nous parvenons à reconnaître notre reflet dans le miroir, il n’en demeure pas moins que l’image constitue un mystère dont nous cher hons l’explication. Quelle est cette seconde personne qui surgit en même temps que nous ? On en fait volontiers un double que l’on chargera de tous les espoirs dont la réalité nous prive. Nous désirons être èternels sans poids, invulnérables, toujours vigilants. Le double le sera pour nous. Il devient une représentation améliorée, idéalisée du “soi”. Des siècles ont èté nécessaires pour que l’homme puisse ramener à lui l’image qui semblait extérieure, pour qu’il l’incorpore à sa personne....Le miroir ètant, je l’ai montré, l’arme principale de la prise de conscience du “moi”, conduit par là même à s’inquiéter des caractères véritables de la réalité. En effet, les phénomènes de réflexion sur les surfaces polies constituent le premier exemple d’une illusion c’est-à-dire d’un cas où les sens sont pris en flagrant délit d’erreur, où le doute peut naître.»Ma la coincidenza più interessante è nella affermazione che si può leggere a conclusione dell’editoriale dell’ultimo numero del “Minotaure”, quello del maggio 1939:trascrivere in francese «Devant la faillite incontestée du rationalisme, faillite que nous avions prévue et annoncée, la solution vitale n’est pas dans le recul ma dans l’avance VERS LES NOUVEAUX TERRITOIRES. Ces territoires, notre ambition a été de les désigner, de les définir. Notre rôle est à tout prix de maintenir, de continuer à améliorer cette position». È giusto ricordare che nella rivista dei surrealisti, che pure tra le discipline di sua competenza inserisce fin dal primo numero l’architettura, nei suoi sei anni di vita, non ostante avesse Le Corbusier tra i suoi collaboratori, non pubblicò nemmeno un progetto di architetti contemporanei e per riempire l’evidente lacuna pubblicò il celebre saggio di Salvator Dalì sulla “Beautè terrificante et commestibile, de l’architecture Modern’Style” oltre a una immagine del palazzo del Facteur Cheval a Hauterive e un acquarello di Helene Smith intitolato “Paysage Ultramartien”. È davvero paradossale che uno dei pochi architetti (si potrebbero citare, insieme a lui, Niemeyer e Barragan, oltre naturalmente al Le Corbusier “clandestino” dell’attico Beistegui) che abbia cercato di tradurre la sensibilità surrealista in un’opera di architettura sia stato proprio Carlo Mollino con l’Ippica torinese e gli arredi di casa Miller e Devalle e ciò sia avvenuto a Torino, in uno dei pochi paesi europei in cui non vi era stata nemmeno una delle manifestazioni surrealiste accuratamente elencate dal “Minotaure”.L’esplorazione, da parte di Mollino, dei nuovi territori indicati dalla rivista avviene nel periodo della guerra e della “pugnalata nella schiena” inferta dall’Italia Fascista alla Francia e se nulla sappiamo finora del suo rapporto con la politica possiamo attribuire alla sua scelta surrealista un valore anche dal punto di vista ideologico. La casa Miller realizzata dall’architetto per le sue esigenze personali è un vero e proprio manifesto che la casa Devalle chiarisce e completa. In entrambe l’uso creativo degli specchi denuncia un programma preciso: confrontare spazio reale e spazio virtuale in un gioco continuo e inesauribile di sovrapposizioni, di intrecci di compenetrazioni geometriche in cui emerge la consumata esperienza del fotografo, abituato a riflettere sulla “messa a fuoco” delle immagini e quindi sulla possibilità di privilegiare i piani prospettici, di distinguerli o di confonderli. Nella casa Miller accanto agli elementi dell’immaginario surrealista: il tavolino a tre gambe, lo specchio con la sagoma della Venere, la testa di cavallo adagiata su un tappeto, il prigione di Michelangelo sotto il cristallo del tavolo, appaiono ancora elementi di gusto razionalista, come la vetrina che, non ostante il sorprendente appoggio filiforme, ricorda quella inserita da Persico nel suo arredo del negozio Parker di Milano. Il ricorso alla memoria, ancora in filigrana in casa Miller (un vecchio orologio, uno specchio barocco, collocati in modo atonale sotto il soffitto) esplode nelle case Devalle dove, abbandonata ogni inibizione Mollino disegna numerosi elementi in stile: le colonnine di ottone, ambigua citazione pompeiana o ottocentesca, il piano d’appoggio con i balaustri a disposizione alterna che seguono l’esempio borrominiano, il tavolo con il piano di vetro che rivisita modelli cinquecenteschi, la testata del letto in cui il motivo barocco sinusoidale è trattato però con una libertà che fa pensare ad Aalto. Ancora più esplicita la citazione del timpano che appare ironicamente collocato come una sorta di palcoscenico teatrale in mezzo a una vetrina orizzontale dal fondo specchiante. Già nell’Ippica Molino aveva voluto inserire dei cancelli di ferro battuto disegnati nel linguaggio barocco e dei lampadari di legno dorato come “chiave di lettura” per il muro curvato sinusoidale, modificando in profondità la percezione d’insieme, ma nell’arredo Devalle il dado è tratto e si afferma la liceità della contaminazione tra antico e moderno non solo attraverso l’inserimento in un contesto moderno di “pezzi” antichi ma anche attraverso l’inserimento di elementi disegnati intenzionalmente con un gusto eclettico che trae dall’antico, con grande libertà di scelta o la forma finita (citazione letterale di un originale) o più generalmente alcune inflessioni stilistiche rievocate affettuosamente e ironicamente nello stesso tempo. Nell’Ippica era evidente nell’uso delle superfici curvilinee l’intento di utilizzare uno strumento formale del barocco, come del resto aveva già fatto Aalto qualche anno prima, senza però un intento contaminatorio. Il consapevole anacronismo appare solo nei cancelli, in un elemento quindi estrinseco e decorativo. Nelle case Miller e Devalle si può leggere invece una dichiarazione di poetica che esplora quel “territorio della contaminazione” che i surrealisti da Dalì a Ernst, da Picasso a Cocteau avevano e avrebbero ulteriormente frequentato anche nel dopoguerra. Prescindendo dai problemi linguistici i due arredamenti citati pongono un problema di valutazione della riuscita dell’esperimento molliniano resa difficile dalla loro sparizione ancorché la descrizione fotografica sia in larga misura autografa e rappresenti quindi una lettura “autentica” delle intenzioni oltre che dei risultati raggiunti. L’impressione che si prova osservando il materiale superstite nella sua integrità è di un risultato non specificamente architettonico ma importante proprio per il coinvolgimento di altre forme di espressione artistica, quella fotografica e cinematografica, quella dell’arte visiva e quella letteraria. Mollino si è lasciato sollecitare da un materiale onirico tratto dall’immaginario surrealista ma anche in larghissima misura dalla sua esperienza personale e ha ricondotto la pluralità delle suggestioni alla unità della forma, una “difficile” unità, per usare un termine caro a Robert Venturi, a cui si arriva in questo caso per flussi, sovrapposizioni, dissolvenze incrociate. Si rifletta sulle imbottiture (e qui meglio sarebbe dire in francese capitonnè), il loro apparire su porte e soffitti oltre che su poltrone e divani (come, occorre sottolinearlo era di moda in quegli anni crea una situazione per così dire “acustica” e, nello stesso tempo tattile e olfattiva. Come Picasso negli anni trenta, Mollino non rinuncia né alla scomposizione cubista né alla compattezza tradizionale della immagine (si osservi il divano a cuore con lo sfondo del letto a cortine) ottenendo dalla commistione e dal continuo sovrapporsi delle immagini, tagliate dagli specchi, un effetto di magica sospensione e di attesa. La concinnitas albertiana (nulla si può aggiungere o levare senza perdere l’armonia) si raggiunge qui usando le tecniche dell’avanguardia, viste come da lontano, con sapiente ironia.Il 1941 è per Mollino un anno cruciale per molte ragioni; segna lo scoppio della guerra (alla quale l’architetto riuscirà a sottrarsi con un espediente) con le difficoltà psicologiche e di lavoro che ne conseguono, si moltiplicano le occasioni per una sortita in campo urbanistico (Aosta, Moncalieri) e la “Rassegna” dell’Ordine degli architetti di Torino pubblica il suo scritto dedicato ad Alessandro Antonelli. Una lettera, scritta all’amico Velso Mucci nel mese di giugno ci consente di capire lo stato d’animo di incertezza e di attesa e la qualità straordinaria delle sue riflessioni aperte al futuro. A trentasei anni, con alle spalle un brillante esordio professionale l’architetto appare insoddisfatto dei risultati raggiunti e sembra deciso a superarne la provvisorietà e la fragilità. «La faccenda del “liberty” è cosa, come sai, ancora oscura e paurosa – ne riparleremo. Pertanto più precisamente parlando di floreale non come fatto sovrapposto, decorativismo, ti confermerò che il mio lavoro di architetto è teso alla liberazione d’ogni presupposto polemico o intellettualistico per fare in modo che naturalmente nasca la forma architettonica. “Jaillir” in forma aperta. Questo trapasso dalla forma chiusa (funzionalismo – intendo come risultato poetico – non come termine di polemica) a quella aperta è cosa nella quale non posso che procedere cautamente per appunto non fregarmi e cadere nel decorativismo - un neo-liberty, diremo – insomma il trapasso (e qui non credo di esser quasi solo sulla strada) deve avvenire “necessariamente” e naturalmente. Allora sarò io la natura – non quella in senso letterale, ma quella che si identifica con il mio spirito – e guiderò con leggi interiori mie – il nascere delle forme in piena naturalezza epperciò libertà. Secondo il mio modo di reagire si incurveranno le liane, si disporranno le foglie a cerchio cesto ventaglio per un loro solo accogliere o rifiutare. Un bisogno sarà soddisfatto con regalità o crudele limitazione – il volgere di uno sguardo a certo percorso e meraviglia. Concluderò insomma secondo la mia “natura interiore”. Parole queste che si applicano a qualsiasi e di ogni tempo manifestazione poetica, ma che nel mio caso anche bene servono a precisare una architettura risolta appunto come “caso naturale” e inequivocabile rivelazione ovvia – ovvia però soltanto quando risolta – ossia poesia. E per meglio chiarirmi dovrei continuare a distinguere. Spero di poter fare questo al nostro primo incontro. Meglio ancora mi ripropongo di farlo con delle architetture. Dopo il “Saldatore” ho appunto in mente di scrivere un “Discorso sulle ossa” dove è la parafrasi della mia poetica di architetto».Il riferimento all’aggettivo floreale potrebbe far pensare a un intenzionale riferimento alla eredità italiana dell’Art Nouveau, ma a mio parere va piuttosto riferito alla volontà di chiarire il rapporto architettura-natura aldilà degli equivoci, bollati da Croce, del naturalismo. E il tono alto e metaforico dello scritto rafforza questa tesi aiutandoci a capire il passaggio dal gusto surrealista degli accostamenti imprevedibili a quello delle strutture osteologiche e delle corrispondenze tra la forma del corpo e quella degli spazi e degli oggetti che lo accolgono, tipiche del secondo Mollino. La forma architettonica deve trapassare dalla forma chiusa del funzionalismo a una forma “aperta” secondo la terminologia woffliniana attraverso un percorso da compiere con cautela per evitare il temuto “decorativismo”. In questo percorso l’artista si fa egli stesso “natura”, nel senso che assorbe la bellezza dalla sua fonte inesauribile e la trasporta, attraverso la propria interiorità, nel mondo dell’arte per il quale la bellezza, quella della natura in modo particolare è solo una occasione da cogliere, una provocazione da accettare. Il «guidare con leggi interiori mie il nascere delle forme in piena naturalezza», altro non è che il superamento della mimesi nella sua accezione passiva. «Elaborando le impressioni – aveva scritto Croce ( +++) – l’uomo si libera da esse. Oggettivandole, le distacca da sé e si fa loro superiore. La funzione liberatrice e purificatrice dell’arte è un altro aspetto e un’altra formola del suo carattere di attività. L’attività è liberatrice appunto perché scaccia la passività.» Mollino ama la natura (il suo alter ego, l’Oberon del romanzo incompiuto pubblicato da Casabella, lo dichiara elencando le “serene cose” da dire: perfetta organizzazione della società, vita semplice e nessuna marcia del progresso, vita facile, brava gente sana e felice di vivere, grandissimo amore per la natura) ma il suo obiettivo è quello di trovare il modo attraverso cui le impressioni possano calarsi e fondersi nell’espressione e per questo persegue una strada tutta sua, quella di una architettura “risolta come caso naturale”. La metafora che adopera per rendere l’idea all’amico Mucci è molto significativa e deriva direttamente dal mondo d’immagine dell’Art Nouveau («secondo il mio modo di reagire si incurveranno le liane, si disporranno le foglie a cesto ventaglio per un loro sole accogliere o rifiutare») direttamente imparentato con quella estetica dell’Einfuhlung.Il problema dell’Art Nouveau (Liberty in italiano) diventa, nella storia personale dell’architetto, un problema cruciale che coinvolge il subconscio (“cosa oscura e paurosa”). Ospita il suo foro interiore quello che sarebbe poi diventato un dramma della storiografia: includere l’Art Nouveau nella parabola del “movimento moderno” come farà Pevsner o espungerla come “malattia infantile” come faranno Tafuri e Dal Cò? Tornando sull’argomento otto anni dopo Mollino vede le cose in modo meno drammatico: «Se il liberty si allinea nel catalogo degli stili eclettici e vi convive (anche se oggi è morto vi sono indizi concreti per supporre riesumazioni e riabilitazioni parziali), ha per contro un merito “storico” che è bene, una buona volta, ricordare: è il primo movimento del gusto che libera totalmente lo spazio, la superficie, la decorazione, dai canoni millenari della membratura di gusto classicistico; e non è poco. Per trovare altrettanta disinvoltura non solo decorativa, ma planimetrica nella casa, occorre guardare al Giappone, a Creta e a Micene.» Nello stesso saggio pubblicato a puntate su “Utopia e ambientazione” (****) il mondo d’immagine liberty è rievocato con abilità letteraria. «Tra rimbalzi di esposizioni e riviste ormai celebri, nascono liane in modo vorticoso, steli estenuati in sottili ricorrenze e tesi a fasce geometrizzate di fiori, seggiole, tavoli, armadi, modulati in scelte curve vegetali, pensiline a corolla in vetro curvato e sorrette da mensole di pampini metallici, fluide colate di nervature ondose». Le “liane” della lettera a Mucci riemergono ormai cristallizzate nel passato remoto. Si potrebbe ipotizzare che negli otto anni che separano i due scritti Mollino abbia immaginato la riproposizione di una spazialità fluida e ondosa anticipata dai maestri dell’Art Nouveau, liberata dai “canoni millenari” assai più radicalmente di quanto lo fosse la sintassi ortogonale del razionalismo, un “Neo-liberty” radicale, ben diverso da quello cauto dei suoi allievi, Roberto Gabetti e Aimaro D’Isola propensi invece a riutilizzare le “valenze rimaste libere” della Secessione viennese o della scuola di Amsterdam; un neo-liberty vicino per certi aspetti al gusto contemporaneo delle superfici deformate (ne è evidente la prefigurazione nell’ectoplasma pendente della mostra “The numero 2” del 1939), dei volumi liquidi, delle decorazioni spalmate sulle grandi superfici, ma per quel che può valere la mia ipotesi, certamente privo della fredda arbitrarietà e della tracotanza della attuale deriva architettonica.A parte le ipotesi soggettive lo stato d’animo che traspare dalla lettera denuncia un disagio esistenziale e un bisogno di cambiamento che avrà come conseguenza nel campo della architettura la creazione di quell’autentico capolavoro che è la capanna del Lago Nero del 1946 in cui il programma di fluidificazione dello spazio, così evidente nello sporto della terrazza, si combina con un sentito omaggio alla tradizione alpina della architettura lignea. Nel campo degli spazi interni e degli arredi le difficoltà legate alla preesistenza degli involucri murari sembrano orientare l’architetto verso un programma meno ambizioso: organizzare lo spazio esistente in senso teatrale (nella direzione di una “crudele limitazione”) assegnando però ai “mobili” il ruolo di protagonisti (dove quindi il “bisogno” viene soddisfatto con vera “regalità”) informando la loro modellazione a quel “discorso sulle ossa” che trasforma l’architettura in un “caso naturale”.Durante la guerra, Nel 1942, “Domus” pubblica, tra le case ideali dei giovani architetti, la torre sulla collina torinese che Mollino immagina per sé, accompagnandola con una lettera a Ponti in cui si confessa senza reticenze. «Ti devo confessare però per prima cosa – scrive – che, personalmente, prescindendo dalla quotidiana omerica lotta silenziosa con mio padre al quale voglio un bene grandissimo, non desidero affatto cambiare l’ambiente nel quale vivo e lavoro: l’ufficio è la copia fedele di un banco commerciale olandese; la casa una prodigiosa sovrapposizione dei modi di vivere e pensare dall’umbertino al tardo floreale con insieme tutte le ramificazioni che l’assenza totale di preoccupazioni di gusto può generare. Se rimanessi solo non cambierei una seggiola; l’ambiente è il più neutro che io possa desiderare: non mi disturba, non mi eccita a sbagli, ma mi lascia libero di essere solo con la fantasia, chiamiamola il mio paesaggio interiore per dar tono al discorso. Solo rimane percettibile quel senso continuamente rinnovantesi di lieve nausea necessario a impedire l’accettazione, l’adagiamento. Così dovessi, avessi necessità, di costruirmi una casa per me partirei dal principio di non disturbare, e di lasciarmi libero il muovere e l’evolgersi dello spirito, pur concedendo al mio gusto attuale il meno possibile, conscio che la sfera platonica dell’opera raggiunta finisce pur sempre di coincidere col fatto attuale del gusto. Ma la faccenda è un’altra e cioè di non incidere il fatto poetico futuro necessariamente diverso dall’attuale, con la prepotenza d’un ambiente. Si può dire che il problema espressivo di una casa per sé di un architetto è appunto questo solo». Troviamo quindi l’architetto ancora assorbito tra i dubbi, disponibile però a una esercitazione di stile. Alla tensione verso l’architettura come “caso naturale” si può addebitare la curva concavo-convessa della parete verso la Collina, già sperimentata nell’Ippica, e la falcata dell’attacco con l’arco asimmetrico e l’inserto della scala, ma anche i singoli piani della torre sono dinamicamente configurati da curve concave in dialettica contrapposizione alle vetrate rettilinee rivolte verso il panorama della città.Nell’aprile del ’44, “Stile” pubblica, accompagnata da una lunga lettera, la “casa sull’altura”, un’altra risposta ai dubbi e alle inquietudini della lettera a Mucci. Mollino cita a proposito del suo progetto, anche questo pensato per abitarci, De Maistre e il Vangelo di Luca a proposito della “Trasfigurazione” e immagina qualcosa che partecipa della provvisorietà della tenda e della orizzontalità di un racconto in cui già emergono la complessità e le contraddizioni come viatico a una libera rivisitazione del passato prossimo e remoto, implicita prefigurazione di quanto Robert Venturi teorizzerà dieci anni dopo nel suo celebre libro. Le volte leggere che collegano la sala maestra e gli ambienti laterali configurano un sistema basilicale mentre il soggiorno si avvale di un soffitto inclinato, sul quale con una “lanterna magica” possono proiettarsi fastose decorazioni di antichi palazzi. La biblioteca ricorda la sagoma esterna della cupola di Santa Sofia. Ormai nessuna inibizione impedisce a Mollino di recuperare tecniche antiche, archetipi, soluzioni formali trasfigurate.«Vorrei parlarti –scrive Mollino a Gio Ponti –del mio sentimento “del nostro tempo” che non è già più quello pur fecondo e motore di opere bellissime e concrete che si può riassumere nella parola “funzionale” o in tante altre sorte parallele. Di dove nasce questa fantasia se non da un paesaggio interiore e insieme da una moralità del sentimento? Sentimento che in questo caso non si esalta più solamente al mito biologico della tecnica e della vita organizzata e gioiosa di tabelle e di vitamine, di ultravioletti e di pesi controllati e di scientificismo d’alveare, fine a se stesso. Troppo abbiamo dimenticato che la scienza non è solo serva della tecnica, ma anche e soprattutto sublime dialogo tra l’uomo e la realtà; questa la squisita facoltà che ci fa veramente uomini.Mito ben valido, quello tecnicista, a darci opere d’arte, (e le abbiamo bellissime) ma ormai insufficiente e ben sfiatato. Dopo che cosa rimane? Terre promesse trovate invariabilmente arse e sterili.E nemmeno mi seduce, se solo, l’incanto ipnotico, fisiologico, di ritmi formali, quelli che sono il pretesto dell’albeggiare dell’ispirazione e della ricreazione estetica, ma non ancora arte. Non un’evasione dalla realtà, non un canto della decadenza, ma un dominio di quanto è il nostro mondo di conoscenza; una sintesi nel tempo e nello spazio, del bisogno quotidiano, della vita meccanica e biologica della materia oltre che dello spirito: “vivi e conosci”.» L’approdo della inquietudine, rispetto alla lettera del 1941, sembra essersi spostato verso un nuovo eclettismo: «penso che già da tempo è nell’aria che respiriamo un eclettismo ben differente da quello dell’ultimo Ottocento; questa la mia immagine e non solo personale (come non sarebbe indispensabile alla sua legittimità).Eclettismo: parola pericolosa; ma non saprei trovarne di più esatte. Usata ormai impropriamente per quell’architettura di somma anziché nel senso di sintesi e di ripensamento originale quale non solo io l’intendo, ma quale è il suo preciso senso etimologico e filosofico; contrapposta perciò a “sincretismo” quale si può definire propriamente invece quella mescolanza retorica del culturalismo dell’ultimo 800 e purtroppo (poiché irrisolto) ancor oggi in vita più che mai e risorgente nelle più impensate incarnazioni (vedi Russia e non solo) e potentemente in linea con tutte le ideologie tecniciste.» Anche in questa lettera emerge un progetto affascinante in anticipo sui tempi ed è giusto chiedersi come mai, anche di questa ipotesi, Mollino non ci abbia dato che qualche frammento. Nel dopoguerra , si accendono gradualmente le sue passioni extra-architettoniche per la montagna, lo sci, la fotografia, la moda, le automobili e l’aviazione acrobatica che gradualmente lo allontaneranno dall’impegno professionale. La montagna però fa eccezione perché è lì che si sviluppa, fin dagli anni trenta l’ interesse filologico per la tradizione costruttiva del legno che lo porterà non solo a scoprire la “modernità” della “architettura senza architetti delle valli alpine” ma gli offrirà l’ispirazione per il suo secondo capolavoro, la stazione della slittovia del Lago Nero a Sauze d’Oulx (1946-47) un edificio in cui convergono mirabilmente il suo interesse per le strutture innovative e il suo culto della tradizione. Il basamento da cui sorge la struttura lignea dell’edificio è realizzato in cemento armato con una morfologia organica che sviluppa la sensibilità plastica di Mendelson in modo originale anticipando Eero Saarinen e Kenzo Tange. L’idea di base è quella di appoggiare su una grande piastra un volume prismatico che si dilata verso l’alto, coperto da un tetto a due falde, ma ogni elemento di questo insieme è analizzato e risolto in modo sorprendente e creativo. Si potrebbe dire, in senso heideggeriano, e rifacendosi a Hölderlin, che Mollino ci insegna qui ad “abitare la neve” e ad abitarla “poeticamente”. La piastra, chiusa al disotto del blocco che la sovrasta, si allarga davanti come una piazza all’aperto e poggia su due pilastri appoggiati a cerniere che acquistano per ragioni statiche il profilo, ristretto verso il basso di grandi “zampe” che sradicano la piastra dal suolo e la fanno librare nello spazio. La struttura lignea della capanna deriva filologicamente dal rascard valdostano ma ciò che nel modello si chiude a formare scatola, i piani di contenimento dello spazio interno, si inclinano e si aprono in modo diverso verso i quattro lati raccontandoci il primato dello spazio interno abitabile. Una prova della rilettura critica e innovativa della struttura tradizionale sta nei tiranti metallici che consentono al trave ligneo soprastante di mantenere una elegante leggerezza, un sistema che sarà alla base delle soluzioni innovative di Peter Rice e che si diffonderà come una epidemia cinquanta anni dopo.Mollino - è evidente - ha assimilato l’insegnamento di Wright, decostruendo la scatola muraria e utilizzando l’idea del pilastro ad ombrello che nella capanna del Lago Nero però si fonde al solaio con una sensibilità che chiama in causa Borromini, Guarini e Juvarra. Al di sotto della piattaforma, bianca come la neve, si ha la sensazione di una architettura umanizzata fino allo spasimo: una architettura che respira accoglie, abbraccia, saluta. Nel dopoguerra italiano Zevi fece ogni sforzo per incoraggiare la creazione di una architettura organica italiana, scoraggiando contemporaneamente l’imitazione delle opere wrightiane. Mollino, forse il solo ad esser riuscito a fare una architettura organica autentica, fa, ancora una volta a modo suo : guarda a Wright senza complessi di inferiorità e lo continua, lo coperte, lo emenda. Sulla scia della capanna del Lago Nero Mollino costruisce, dal 1951 al’53, una casa sull’altipiano di Agra, presso Luino, parzialmente ancorata al terreno, ma flottante sullo spazio e dinamicamente orientata, un esempio di come la passione aereonautica si proietti in modo diretto nella architettura costruita.Negativa invece l’esperienza di Cervinia dove l’architetto deve cimentarsi con la intenzione speculativa del committente. Da una idea brillante di un edificio nettamente orientato verso il sole, con al di sopra una grande terrazza, pensata come piazzetta tra due pareti di pietra si passa gradualmente un volume convenzionale che servirà di modello alle infinite aggressioni al paesaggio che segnano gli anni del boom economico.La verità è che tra l’architetto e il potere, tra l’architetto e la società in cui vive, nella Italia del dopoguerra, i rapporti sono quasi sempre strumentali, sembra mancare ogni canale di comunicazione culturale, ogni possibilità di intesa e di fruttuosa collaborazione aldilà delle piccole occasioni private. Mollino è considerato ancora - come diceva Ridolfi per chiarire il suo rapporto con il potere - un “architetto di periferia e rimane quindi tagliato fuori dal processo della crescita urbana La Torino degli Agnelli non sembra minimamente accorgersi della peculiarità torinese del personaggio e lo consulta per un concorso a inviti, vinto da Kevin Roche solo nel 1973, l’anno della sua morte. Lo stesso Adriano Olivetti quando capita l’occasione di fargli costruire un albergo sulla roccia del Castellazzo ad Ivrea, lo abbandona alla incomprensione dei “carissimi colleghi”, Quaroni Fiocchi e Ranieri che lo vorrebbero sensibile alla loro idea di ambientamento. Le amare riflessioni di Mollino sul rapporto committente architetto ci fanno capire come egli abbia, sotto il velo dell’ironia, vissuto tragicamente una difficoltà di intesa che è alla base della incompiutezza della sua figura di architetto. «Senza cliente – si legge nella “Vita di Oberon” – l’architettura non esiste. Per “fare arte” abbiamo bisogno di lui; senza di lui siamo artisti che discutono al caffè. È lui che bisogna deportare, prendere a calci (?), a lui che bisogna fare minaccia a mano armata.»Tornando agli “interni” di Mollino, tra le case Devalle, del 39-40 e la casa per Ada e Cesare Minola del 44- 46 si collocano numerosi progetti di arredi in cui entra con forza il tema del piano libero curvato. Tra questi eccelle la camera per Ettore Caretta, del 1941, che una serie di disegni efficacissimi consente di accostare ai temi della lettera a Mucci, per la forma organica della piccola scrivania collegata alla libreria, per la sagoma curvilinea dei tendaggi che racchiudono il letto in un involucro semi-trasparente. Al periodo dal 41 al 48 appartengono alcuni progetti di case in cui spazi estroflessi dal contorno mistilineo fanno supporre una conoscenza graduale dell’indirizzo di ricerca di Alvar Aalto; è il caso della villa Demonte, della casa a Positano e delle due case, parallele come ispirazione, disegnate per Ada Minola e per Umberto Mastroianni ad Acitrezza. Progetti in cui davvero l’architettura diventa “caso naturale” descritto con uno slancio e una felicità che ne fanno rimpiangere il destino di “architetture interrotte”.Nelle due case Minola si chiarisce la strategia del secondo Mollino che tende ad escludere i colpi di teatro di ispirazione surrealista a vantaggio di una rigorosa impostazione narrativa immersa nella suggestione biomorfica. Le pareti definiscono spazi regolari prismatici che sarà compito degli arredi smussare e collegare tra loro attraverso rimandi visivi. Una gigantografia (nella casa di Ada e Cesare) che riproduce una incisione con un bosco e una grotta crea lo sfondo fantastico su cui i mobili con le loro linee tese e scattanti si stagliano. Questi mobili recitano il loro dramma triangolare tra la corposa consistenza della chaise longue, la sagoma eretta della poltrona e quella scheletrica del tavolino che mima la tensione muscolare di un cavallo prima del salto.Nella casa Orengo la stessa semplicità e ampiezza di gesto con il ricorso però agli specchi e a una inedita transenna trasparente che ricorda Mackintosh. Nella casa Rivetti invece ritroviamo un Mollino in piena forma: specchi tendaggi gigantografie che invadono anche il soffitto in un clima però controllatissimo che esprime un senso di distacco, una compiuta maturità. Il ruolo di detonatori spetta sempre ai mobili, disegnati come archi e balestre nell’atto di scattare con una eleganza giunta ormai al suo acme. Il commento autocritico, come sempre, coglie nel segno. «Di fronte a un tema divenuto ormai estremamente soggettivo – scrive – l’architetto autentico gode di una libertà invidiabile, si sente demiurgo in una sfera immaginaria dove il committente ha la consistenza di una farfalla o di un pipistrello. Se è una farfalla sarà tale da essere pronta a colorarsi del romanzo dell’architetto.»Nel 1950 Mollino vince, insieme ad Aldo Morbelli, il concorso per il rifacimento del teatro Vittorio Emanuele a Torino e realizza uno dei suoi spazi più belli e meno complessi, trasformandolo in un auditorium adatto alle esigenze della Rai. Il fondale con l’organo racchiuso in un contorno arcuato fa pensare ai disegni di Mendelsohn come del resto la ariosa composizione a cerchi concentrici sovrapposti. Anche se brevissimo, il periodo passato da Mollino nello studio di Erich Mendelssohn qui se ne avverte il valore formativo.Con la metà degli anni cinquanta, dopo il trauma della morte del padre, il centro degli interessi di Mollino si sposta verso le altre passioni-ossessioni della sua vita: la meccanica, gli sci, il volo, la fotografia come arte o come mero strumento di un malinconico erotismo. Continua a progettare ma la qualità dei suoi interventi, almeno fino alla fine del decennio, non è più la stessa. Spezza questa spirale involutiva il dancing Lutrario di Torino del 1959 in cui riemergono le sue doti di incantatore e la sua capacità di controllare una orchestrazione complessa in cui spazio, luce, colore, specchi, riflessi, intrichi lineari, concorrono a uno spettacolo continuo fatto non per una contemplazione astratta ma per una fruizione nel movimento in mezzo a una folla a sua volta mobile e animata nel gesto e nelle voci. Specialmente la scala con la sua ringhiera filiforme avvolta come una rete intorno al vuoto dimostra la intatta capacità molliniana, sulla scia di Horta, si direbbe, di plasmare immagini di forte valenza biologica. Prima della sua morte, nel 1973, Mollino può cimentarsi con il tema congeniale del teatro e lo fa, superando ogni stanchezza, con uno splendido progetto irrealizzato e con il suo ultimo capolavoro: la costruzione del Teatro Regio. Il concorso per il teatro di Cagliari in cui gli viene assegnato solo il terzo premio,, proponeva una sala dalla forma magica di una zucca immersa in un dinamico volume plasmato nello spirito degli schizzi di Mendelsohn. La sezione e gli schizzi prospettici ci mostrano a dispetto di ogni possibile previsione la intatta freschezza di chi ha accumulato dentro di sé un mondo intero di sogni “edificabili” ed è ancora in grado di riversare nella attesa occasione la parte migliore di questi sogni. Il “Regio” è la grande occasione della sua vita: costruire un grande teatro al centro della sua amata città, senza altri vincoli che quello dell’inserimento in un tessuto preesistente. La scelta di non intaccare l’omogeneità del contesto urbanistico concentra l’attenzione di Mollino sullo spazio interno racchiuso con discrezione tra due alte mura di mattoni in cui il motivo bugnato dell’Ippica, a punta di diamante, fa da basamento a un paramento di mattoni disegnato in positivo e in negativo con le stelle guariniane di palazzo Carignano. Le due pareti si incurvano come a plasmare la cassa risonante di uno strumento musicale e dialogano a distanza con il fronte ricostruito verso la città in cui Mollino affronta il “falso storico” con una spregiudicatezza davvero “antica”. Solo verso l’ingresso le mura si aprono in grandi vetrate per illuminare un monumentale sistema di scale, anche mobili, in cui l’architetto si confronta felicemente con il tema juvarriano di Palazzo Madama. Nella sala Mollino mette a contrasto efficacemente tre temi dominanti: la morsa dei palchetti sfalsati, legati al soffitto a cesta inciso da un labirinto di fessure; la cascata di stalattiti del lampadario centrale e la superficie vibrante rosso carminio della platea, incurvata come la valva di una conchiglia. La conchiglia, simbolo dell’eternità, tante volte collocata a sorpresa negli arredi o disegnata sulla carta con la grafite tenera, per l’ultima volta riemergeva dalla mente dell’architetto come immagine dello spazio accogliente a suggello di una vita dedicata al culto dell’arte, arte nella e della vita e vita come opera d’arte.Il Teatro regio, costruito da Benedetto Alfieri nel 1740 era stato vittima nel febbraio del 1936 di un incendio devastante e da allora, date le condizioni disastrose di quanto ne rimaneva era iniziata la lunga avventura della ricostruzione. Un concorso, bandito nel 1937, ebbe come vincitori gli architetti Aldo Morbelli e Robaldo Morozzo della Rocca, ma il continuo cambiamento delle intenzioni della committenza pubblica a delle norme urbanistiche che ne condizionavano la collocazione motivò una serie infinite di varianti. Iniziati i lavori, nel ’39 intervennero subito a decretarne la sospensione le difficoltà della autarchia e i gravi danni causati dai bombardamenti agli edifici circostanti. Costretti nel dopoguerra ad approntare altre tre varianti gli architetti (nel frattempo Aldo Morbelli era morto) si videro poi esonerati dall’incarico che venne affidato dal sindaco Grosso a Carlo Mollino con la collaborazione per la scenotecnica dell’ing. Zavelani Rossi. Motivo di questa complicatissima vicenda, tipicamente italiana, la dimensione del teatro imposta dalla committenza - sensibile alle vicende economiche del paese e alle sue, continuamente rinascenti, manie di grandezza - che varia dagli iniziali 2000 posti, ai 3300 del 37’,ai 2700 del 39’, ai 4000 del 1948, ai 3.500 del 1955, ai 2400 dell’ultimo progetto del Della Rocca, ai 1800 richiesti a Mollino per il nuovo progetto, più che sufficienti per un teatro dell’opera.L’incarico definitivo arriva nel 1966 e per giungere alla inaugurazione occorreranno ancora 7 anni di lavoro intenso che vede Mollino a capo di una equipe interdisciplinare votata con rigore torinese a far quadrare un bilancio assai contenuto. Mollino ha raccontato in una minuziosa relazione il clima di collaborazione che si era instaurato nelle piccola comunità dei costruttori senza tacere delle sue “urla scomposte di madre ferita” e delle “inesauste pretese dei progettisti” nei confronti del direttore dei lavori.Quando si trattò di raccontare in pubblico il progetto del teatro Mollino si presentò con un uovo in mano che doveva servire a spiegare la forma simbolica dominante che lega tra loro i diversi involucri spaziali. Per definire la sala l’architetto parla infatti di una “forma intermedia tra l’uovo e l’ostrica semiaperta dove alla cerniera delle valve corrisponde il palcoscenico”. Lo spazio creato dall’involucro è tutt’altro che un “vuoto”, ha la consistenza di un flusso orientato verso la scena ma che prima di restringersi nel palcoscenico si dilata celebrando lo “stare insieme” di tanta gente riunita non solo per guardare, ma per guardarsi. Maestro di erotismo nel senso dell’estasi dei sensi, Mollino esprime qui il valore di relazione della folla di spettatori che si scambiano sguardi, gesti, saluti. Osservando le piante dei vari livelli, si capisce che il progetto psicologico di Mollino è una esaltazione della corporeità che fa leva sulle reazioni più elementari. È già stato osservato che la pianta suggerisce la forma di un corpo femminile. Le pareti esterne curvilinee prossime all’innesto con il portico del Castellamonte suggeriscono la sagoma dei seni mentre le pareti piene che fiancheggiano i servizi scenici suggeriscono i fianchi. Più importante però di questa iconologia segreta che forse propone l’equazione donna-teatro-donna è la concatenazione delle superfici curvilinee che nella percezione degli spazi di percorso e nella sala colpiscono la vista in una vicenda narrativa che continuamente riporta l’attenzione dello spettatore verso la morfologia del corpo sollecitando dal corpo degli spettatori una reazione empatica.Purtroppo la sala è stata restaurata cancellando uno dei suoi dettagli più significativi : L’involucro del proscenio, che Mollino aveva plasmato ironicamente a similitudine del video di un televisore è stato trasformato - ironia della sorte - dai migliori allievi dell’architetto, Roberto Gabetti e Aimaro D’Isola - in un rigido sistema di telai rettangolari che interrompono la ininterrotta fluenza delle linee e superfici curve. Tutto ciò in omaggio alla teoria acustica dominante in quegli anni e alla supponenza degli specialisti di questa disciplina che si ritengono depositari di una verità indimostrabile.La serie degli ambienti che collegano la sala al corpo ricostruito che fronteggia la piazza è l’altro spettacolare palcoscenico offerto da Mollino agli spettatori : una serie di passerelle sospese che recuperano la tradizione delle grandi scale barocche di Torino: quella guariniana di palazzo Carignano e quella juvarriana di palazzo Madama. Al dinamismo massiccio del linguaggio barocco però Mollino contrappone la trasparenza, la sovrapposizione una continua dissolvenza incrociata di estrazione cinematografica. La coincidenza tra il disegno al tratto che riassume le sue intenzioni e il risultato ottenuto è davvero ammirevole e si deve oltre che alla cura appassionata del progettista anche alla grande abilità dello strutturalista Sergio Musmeci che ha saputo sacrificare la sua personale creatività alla volontà espressiva dell’architetto.Negli spazi del foyer e delle scale come nella sala domina i colore rosso, un misto di carminio e vermiglio, che Mollino avrebbe voluto identificabili come in un dipinto divisionista. La scelta del colore si lega al suo valore simbolico, inscindibile come è dalla epopea borghese del melodramma. Probabilmente Mollino conosceva le dichiarazioni a questo proposito di Charles Garnier che riconosce all’oro “la sua sontuosità, la sua ricchezza, il suo splendore e il suo potere”. “Garnier” - ha scritto Georges Banu – “prende a prestito il vocabolario del ritrattista : egli non si riferisce ai corpi, ma solamente ai volti. Il riflesso del rosso imporpora le gote, fa brillare gli occhi e fa risaltare il biancore dei busti, la parte superiore del corpo, quella che la tragedia ha glorificato e il palco messa sul trono, quella che rifiuta il basso e i suoi poteri sovversivi…il rosso il colore del sangue e del fuoco, rende il luogo teatrale, il quadro di una passione dove lo spettatore è protagonista.”
Mollino adatta al suo teatro il binomio garneriano del rosso e dell’oro (falso) dando un ruolo decisivo all’alluminio “aurato” che serve non a scaldare ma a raffreddare l’effetto dell’accoppiamento così ricco di significati simbolici. “Il rosso e oro”, è ancora Banu che scrive, “ Ciascuno dei due termini si trova alla fonte di un nugolo di connotazioni. Queste sorgono da un fondo culturale comunemente suddiviso, dove l’oro primordiale e il sangue rituale si confondono. L’oro del teatro, così come il suo rosso, riportano alle origini, poiché non si può ugualmente ridurli a una semplice presenza nel campo della coscienza borghese. E in modo imprevisto, attraverso il rosso e oro e tutto ciò a cui rimanda a livello di reminiscenza, che il teatro all’italiana si ricollega al problema delle origini. Origini poste nelle strutture più profonde di quel luogo che, a prima vista, sembrava essere votato alla mondanità. E tutto ciò grazie all’ambivalenza dell’oro o del sangue, poiché ciascuno di questi può riconvertire la sua positività nel suo contrario […]. I due colori riuniti rinviano a dei soggetti che nello spirito di un europeo partecipano entrambi a un antico desiderio di metamorfosi, il rosso evoca il sangue di Cristo, che ogni credente è invitato a bere per il miracolo della transustanziazione che l’officiante la messa è tenuto a operare: il vino che egli offre è il sangue... Allo stesso modo gli alchimisti hanno cercato di trasformare il piombo in oro. Ognuna di queste operazioni è, come il teatro, visitata dallo spirito del miracolo condiviso. Nella sala del teatro all’italiana si riconoscono questi vecchi sogni di metamorfosi ai quali il rosso e oro serve come simbolo nascosto. Non si dà forse anche una definizione de teatro come attività dove si tramuta il piombo dei nostri gesti e il vino delle nostre parole nell’oro dei sacrifici e nel sangue degli eroi?
II rosso e oro rimanda un’immagine doppia. Vi si può scoprire un orgoglio del presente, l’orgoglio borghese, e un ricordo antico che invita a confrontarsi con questa ambivalenza, a sperimentarla, a viverla indistintamente e, al limite, a non scegliere. Chi siamo noi quando ci culliamo nel rosso e oro dei nostri teatri? Dei borghesi o degli Atridi? Entrambi, senza dubbio. Ma ci possiamo chiedere allora se il rosso e oro non sia la confessione del borghese che sogna di essere un eroe antico? Segno di bovarismo, certo, con tutto ciò che questo comporta come proiezione e artificio, ma anche come disfatta. Emma sprofondava le unghie nel rosso dei velluti dell’Opéra di Rouen, come una Medea nel sangue dei suoi figli.
Certo nel Regio di Mollino vi è anche l’ossequio ironico ai riti della borghesia, alla quale l’architetto apparteneva con distacco ma senza vergogna, lo dimostra la coppia schizzata nel disegno elaboratissimo relativo all’atrio, dove entrano con elegante discrezione una giovane formosa accompagnata da “un uomo in frack”. Così come, nell’altro disegno dedicato al profilo “sinuoso” delle pareti esterne si offre come chiave interpretativa una delicata fanciulla di cui si intravvede il profilo del seno. L’aggettivo sinueuse, in italiano “sinuoso”, non deriva forse da seno? Eppure se qualcosa i critici non hanno perdonato a Mollino è proprio la chiarezza esplicita delle sue allusioni biomorfiche, non certo per pruderie ma per l’imbarazzante sospetto, generato dalla confusione tra etica ed estetica, che il gusto possa davvero essere “cattivo”. Se Mollino osava d’altronde scoprire nudità anche nel contesto delle sue architetture, come nelle sue celebri fotografie, non era certo per volgare erotismo; basta osservare, per convincersene, la discrezione e la lambiccata astrazione geometrica che informa l’opera fotografica. Il motivo della scelta coerente di un universo flessuoso curvilineo, concavo-convesso e, in modo particolare, delle forme che l’asse di simmetria divide e governa, nasce dal desiderio di confrontarsi con la vita, con il fenomeno dell’istinto erotico, per esempio, che attribuisce alle forme, scoperte nei punti “giusti”, un valore simbolico anticipatore della voluptas, alla ricerca dei momenti in cui la vita, allo stato potenziale o attraverso la morfologia organica, esibisce e disvela, al confine tra visibile e invisibile, i suoi incanti e i suoi misteri, fino a sperimentare, oltre ai brividi dell’occultismo, le gioie dei viaggi, l’emozione del volo acrobatico, della velocità sfrenata del bi-siluro, l’ebbrezza delle discese frenetiche sui declivi nevosi. Anche Oscar Niemeyer del resto, un quasi coetaneo, non nascondeva l’ispirazione erotica del suo linguaggio tanto che, dietro la sua scrivania nello studio di Copacabana, conservava a più di novanta anni, un paesaggio collinoso fatto di schiene di giovani fanciulle sdraiate sulla spiaggia.L’opera prima di Mollino, un bassorilievo scolpito a venti anni che rappresenta un uomo e una donna elegantemente vestiti, con il proprio cappello appoggiato a terra, s’intitola Progetto di Bambino. La polarità maschile femminile, vissuta in profondità dall’architetto, diventerà sempre più complicata e difficile escludendo a priori l’approdo familiare. Il culto entusiasta della vita, viziato dal narcisismo, scaturisce nel caso di Mollino, proprio dalla “difficoltà di vivere”, dalla nostalgia per un mondo inafferrabile, immerso nelle nebbie del passato, ma anche nelle promesse del futuro, una difficoltà dolorosa che solo l’arte, l’invenzione, la fantasia, e le voluttuose evasioni hanno reso tollerabile.