Prolusione ai corsi tenuta in occasione della cerimonia inaugurale del 96’ Anno Accademico del Politecnico di Torino

I concetti di « classico » e « romantico » definiti nel loro significato storico vengono generalizzati in categorie e poi esemplificati con riferimenti all'architettura attuale. L’apposizione di classico a romantico prima considerata in parallelo con le poetiche formali e contenutiste viene quindi filologicamente identificata come apposizione di linguaggio diretto a indiretto. Infine la validità estetica dei due linguaggi, affermata sempre attuale, è esaminata al profilo del comporre architettonico.

I due termini, classico e romantico, ricorrono ancora insistenti nell’ambito della critica estetica attuale, poli opposti intesi a definire il temperamento e perciò il mondo spirituale, il gusto e la poetica di un artista al di là del momento storico nel quale presero vita e definizione; definizione controversa e fonte continua di dispute, in particolare per il romanticismo; dispute e accanimenti che stanno appunto a dimostrare la concreta esistenza di questo o quel ben circostanziato « modo di sentire » al di là di una nubescente definizione.
« Classicus auctor » è già nel secondo secolo, per Aulo Gellio, uno scrittore di « prima classe » e, come tale, da portare a modello nell’insegnamento. Successivamente, e non solo nel mondo della romanità, il termine « classico » si consacra come attributo di eccellenza e perciò di paragone per ogni opera esemplare.
Nel Rinascimento l'ammirazione per l’antichità, appunto classica, in un primo tempo, e cioè all’affermarsi del periodo Umanistico, pone l’istanza di un’arte e in particolare di un’architettura che non può essere grande e vera se non ispirata allo studio di quell’età e più precisamente tesa alla imitazione dei modelli di Grecia e di Roma.
In un periodo successivo, per l’architettura in anticipo rispetto alla poesia, razionalmente si va cercando di legittimare l’eccellenza di quei modelli e ancora di trarne un sistema codificato che sia norma razionale e sicura onde realizzare un’arte altrettanto perfetta quanto quella dei monumenti riscoperti o visti sotto nuova luce: nasce la tradizione dei « trattatisti » e insieme il germe di quell’irrigidimento in legislazione dove all’iniziale ossequio dell’« imitazione » aristotelica, e perciò diretta dalla natura, che nell’opera architettonica avrebbe l’equivalente della funzionalità, è sostituito il canone della imitazione indiretta, attraverso l’arte; arte che per i « trattatisti » altro non è che quel complesso di norme e codificazioni razionalmente generalizzate e tratte come comune multiplo dalla misura, anche in senso letterale, dei modelli classici.
Il concetto della « razionalità », non già intesa come aderenza alla funzione di un contenuto struttivo o fisiologico, ma bensì come critico discernimento della « norma » già codificata in forma, quasi si identifica con quello dell’arte.
Squisitamente classica è l’invocazione del trattatista alla ragione onde sia moderatrice della personalità e salvaguardia contro ogni rivelazione soggettiva. Qualità essenziali dell’opera sono la « grazia », il « decoro » e la « magnificenza »; i concetti, o meglio le leggi che presiedono alla composizione sono la « misura », l’« equilibrio » e la « proporzione ». Anzi, la « divina proporzione » con gli altri termini altrettanto ricorrenti, quali il ritmo, l’armonia, la simmetria e simili è responsabile di trattazioni a sfondo matematico dove la fiducia nelle virtù estetiche della famosa √5 e della non meno famosa « sezione aurea », denunciano la serena presunzione che non solo si è identificata l’arte perfetta, ma ancora se ne è trovata la chiave in forma immutabile e definitiva.
Non è qui il luogo per seguire particolarmente evoluzioni, involuzioni e metamorfosi della poetica del classicismo in Europa fino al XX secolo. Attraverso lo splendore del Barocco, illuso nel suo fortunato delirio di perpetuare la tradizione classica, l’incontro armonico con il rigore raziocinante del cartesianesimo e con la Francia del « Gran Secolo », e infine con la snobistica, anche se positiva, riassunzione dei suoi modi, per elezione dello spirito borghese del neoclassico, ritroviamo la forma del classicismo, ridotta a « stile » a fianco degli altri stili e dove colonne e frontoni sono invocati dall’eclettismo culturalistico ad essere « slogan » significante austera maestà, autorità e dignità, a favore di banche, parlamenti, palazzi del popolo, mausolei, ville d’imperatori o di coloni della Luisiana, senza distinzione.
Oggi ancora, per gli allievi delle nostre scuole medie, « architettura » è sinonimo dello squallore degli « ordini » copiati dalla ennesima edizione « ad usum delphini » del Vignola.
Ho detto ritroviamo le « forme »; infatti, come constateremo, l’essenza del gusto classico, che non ha nulla a che fare con queste forme, è finita onorevolmente altrove.

Già al conformismo del gusto classico che finisce per investire tutto il costume e l’operare del cinquecento si contrappone isolata qualche voce di parere contrario: Giordano Bruno, nel dialogo « Degli heroici furori » meditatamente reagisce allo esaurirsi in accademia dell’estetica classicista: « La poesia non nasce dalle regole... ma le regole derivano dalla poesia » e proclama il « furore poetico » principio dell’arte. A questi, che può essere il patriarca del romanticismo, fa seguito il Castelvetro affermante l’individualità dell’invenzione essenza prima dell’operare estetico.
Storicamente il termine « romantico », « romantic », sorge in Inghilterra, alla fine del seicento, a significare le vicende che accadono nei « romances », cioè avvenimenti fantastici tipici della prosa del « romance », nuova forma narrativa d’invenzione, sorta al principio del secolo dall’esaurirsi della « routine » della poesia epico-cavalleresca; può incidentalmente interessare come l’origine delle parole « romanzo » e « romanticismo » sia comune ed equivalga a: « francese ».
Nell’origine dell’aggettivo « romantico » è già implicita la reazione alle convenzioni della poetica classicista e la sua rapida fortuna di termine contrapposto allo spirito dei monumenti della età classica fatti assurgere a pretesi archetipi di valore universale.
È al principio del XVIII secolo che si avvertono sintomi precisi di una coscienza della problematicità e insufficienza di canoni fino allora indiscussi.
In Francia, Boileau, codificatore ufficiale del più sistematico classicismo è apertamente discusso: si inizia quella famosa « Querelle des anciens et des modernes » in essenza aperta ancora oggi.
Il gusto, nei più avvertiti, già sensibilizzato, tra viaggi, scoperte e scambi culturali, dall’avventura di un mondo che sta per dilatarsi, è stuccato dalle composizioni inanimate, costruite e ripetute dalla fredda presunzione del meccanismo classicista.
Dopo secoli di esaltazione della razionale autonomia dell’uomo affrancato dalla natura e dal timore del Divino, che dall’Umanesimo attraverso la Rinascenza culmina nell’Illuminismo, si sostituisce un sentimento diffuso di insoddisfazione, nasce la reazione e il rifiuto di accettare la fredda ragione come sufficiente e unica protagonista dell’esistenza.
Se il mondo classico non conobbe opposizioni ai suoi ideali, col romanticismo s’inizia non già una rivoluzione risolta in successione, ma bensì in una inquieta connivenza che si conclude in quella crisi permanente, oggi ben attuale, che troveremo chiaramente riflessa nel travagliato svolgersi dell’architettura dell’età moderna.
La nascita del sentimento romantico e la conseguente sua poetica ha limiti cronologici e topografici complessi, indistinti e controversi così come è la sua essenza intrisa di contraddizioni, motivo della stessa sua nascita.
La civiltà mediterranea diviene angusta, nuovi orizzonti pongono alla cultura nuovi problemi e all’esercizio della sensibilità forme di civiltà fino allora poco conosciute nella loro essenza, opposte a quella del mondo greco e latino, e puntualmente in coincidenza con le istanze irrazionali dell’aura romantica.
In Germania, dove si vuole porre l’epicentro di questo sommovimento che si propagherà a catena in tutta Europa, il processo di formazione prenderà l’avvio da un senso di autonomia e antitesi al classicismo francese: con Bodmer, Breitinger, Klopstock e infine con Lessing e con Herder rivendicherà i diritti della fantasia, la legittimità di un nuovo e soggettivo linguaggio, e con l’identificazione della poesia come « arte della vita in azione e movimento », avrà origine lo « Sturm und Drang », il tempestoso impeto del periodo eroico del romanticismo contrapposto alla statica perfezione della forma classica.
Anche se la data di nascita del romanticismo si suole fissare convenzionalmente nel 1798, quando Schlegel afferma essere l’arte romantica « universale e progressiva, in continuo divenire » in opposizione alla fissità di quella classica, già nei presupposti generali dello « Sturm und Drang », che ne è la preistoria, sono singolarmente implicite le istanze dell’architettura più attuale: aderenza alla funzione, rifiuto della distinzione tra forme auliche e minori e di « modelli » di valore universale e normativo.
L’arte esiste solo nella sua storia: ogni tempo, ogni popolo ha la sua, è « Stimmer der Véolker », voce di natura. Il giovane Goethe davanti al dramma gotico della cattedrale di Strasburgo esclamerà: « Qui c’è vita, c’è necessità, c'è Dio! », che riassume la verifica intuitiva di raggiunta espressione di un contenuto a funzione struttiva e spirituale.
Ed è a Goethe che dobbiamo il primo superamento del tradizionale concetto apollineo, edonistico della bellezza: « Bellezza è ciò che rivela un carattere e da tale carattere nasce come la pianta dal suo germe... l’arte caratteristica pertanto è la sola vera ».
Nasce una spregiudicata coscienza dell’autonomia e validità delle proprie esigenze spirituali: a Winckelmann che addita i monumenti dell’arte antica, gli artisti dello « Sturm und Drang » rispondono che quel mondo lontano non li riguarda. All’ammirazione per l’astratta forma dell’architettura classica si sostituisce quella per la dinamica contenutistica dell’architettura gotica.
L’Inghilterra accoglie l’antitesi addirittura identificando con il termine « romantic » l’arte gotico-medioevale contrapposta a quella classica antica.
Il naturalismo romantico di Ruskin inizia Morris alla mistica dell’architettura gotica.
Con la crociata di Morris contro gli stili classici e per un ritorno alla sincerità dell’artigianato, l’imitazione delle forme naturali, ispirato l’uno appunto dal costruire gotico, l’altro dal naturalismo orientale, ha inizio l’era idillica dell’architettura moderna. Per voler precisare, con il 1859 si può fissare la sua data ufficiale di nascita, anno del suo fidanzamento e insieme del sorgere del suo sogno di « un’arte nuova » per la sua nuova casa.
La ricerca pervicace della storiografia tesa alla ricerca di un inafferrabile comune denominatore atto a chiudere in definizione il « modo di sentire » classico e romantico limitatamente ad una loro posizione storica e insieme la continua estensione, che ne fa l’intuizione del critico, applicandoli in senso positivo a opere di tutti i tempi, ne legittima l’assunzione a « categorie dello spirito », principî costituzionali della natura di un individuo o di un gruppo in una estensione indeterminata di spazio e tempo, coesistenti e persino rintracciabili in più o meno fecondo dualismo nell’individua storia di un artista. Per citare un esempio imponente di dualismo risolto in diade feconda ci si può riferire con ovvia e immediata verifica a caso, all’opera di Le Corbusier non solo di architetto, ma ancora di contradittorio polemista.
Classico e romantico diventano modi di essere, vettori dello spirito che possono interferire anche in direzione opposta e informare non solo l’operare estetico, ma tutta la sfera dell’attività umana, pratica o spirituale, dalla tecnica della ricerca scientifica a quella politica e di governo; gli esempi possono essere immediati e nei campi più differenti: la classicità dello spirito del tomismo scolastico può essere contrapposto, sempre nell’ambito più ortodosso, al romanticismo della patristica, lo spirito della ricerca scientifica di Euclide a quella d’Archimede, quello di Riemann a quello di Weierstrass, e si potrebbe continuare.
Per tentare ora una sintesi distintiva e perciò una definizione. dei termini classico e romantico intesi nel senso lato sopraccennato, è tradizionale il ricorso al fatidico strumentario critico di forma e contenuto; attrezzi da maneggiare con cautela, fonti secolari di fraintendimenti e oziose polemiche: si può dire che la disputa cronica tra formalisti e contenutisti si identifica in quella tra classici e romantici. Pensando crocianamente si può attribuire al romantico la tendenza verso il sentimento e al classico quella verso la immagine, sottointendendo che nel primo l’accento batte sul contenuto e nell’altro sulla forma.
A scanso di classiche quanto croniche confusioni, è subito indispensabile precisare che qui si intende significare forma e contenuto estrinseci, cioè rispettivamente le percezioni sensibili che l’opera ci trasmette, e le esigenze pratiche, l’occasione di esistenza della medesima.
In quanto a forma e contenuto intrinseci è noto che non possono vivere disgiunti se non per astrazione, in quanto l’opera d’arte è tale, appunto in virtù della loro sintesi.
Se al profilo di queste urgenti distinzioni paragoniamo un elemento architettonico classico con uno romantico assistiamo ad una automatica sostituzione di termici che immediatamente dimostra l’inconsistenza teorica della polemica sopraccennata: valida rimane in sede contingente di aderenza ad un gusto.
Se esaminiamo gli elementi architettonici di una membratura di spirito classico, ad esempio rinascimentale, scorgiamo come quelle forme in origine funzionali non esprimono ora più alcun dramma strutturale, ma bensì mascherano questo travaglio tecnico risolto in modo occulto, cristallizzate e sovrapposte in valida espressione formale decorativa.
Qui il fatto tecnico, cioè la esigenza pratica di esistenza materiale, non entra in causa. Il fatto estetico è demandato invece integralmente alla forma che si trasfigura e diviene intrinseca appunto in sintesi estetica con un contenuto espresso in virtù di una individua modulazione di se medesima: L’accento batte sulla forma.
Analoghe considerazioni possono valere alla verifica nel medesimo senso di un’opera di spirito classico nell’architettura attuale; possiamo scegliere casi più o meno puri, da Wagner a Mackintosh e Loos; da Dudok a Neutra e Mies Van der Rohe.
Qui spazi e membrature nate da un pretesto struttivo funzionale sono esteticamente vivi solo in virtù della loro forma, assente ogni valore associativo tra questa forma e la loro esigenza tecnico-funzionale: l’incanto poetico si esprime attraverso l’immagine, l’accento batte ancora sulla forma che liberamente si modula in contenuto.
Con riferimento incidentale agli autori citati, è bene avvertire in modo preciso, come per ogni altro esempio che ho fatto e posso fare, che questi accostamenti hanno valore di prima caratterizzazione e non già di critica giunta, come è suo compito, a una individualizzazione, distinta dall’ambito di un gusto comune. Così, per chiarezza, gli esempi saranno schematizzati alla purezza di un caso limite in realtà inesistente. Passiamo ora al campo opposto, cioè a opera di spirito romantico quale una navata di cattedrale gotica: all’opposto di quanto abbiamo verificato nelle opere di ispirazione classica, qui le forme corrispondono alla funzione d’origine, anzi risolvono ed esaltano il suo dramma fino a trascenderlo e farlo coincidere con la funzione celebrativa a mezzo del più imponente quanto diretto simbolo: il verticalismo, anzi l’ascesa in moltitudine ordinata dei piedritti a fascio, chiusa al sommo nell’ombra dell’ogiva.
Intrinseco valore contenutistico hanno anche santi, demoni e mostri e il loro atteggiarsi in moltitudine tra le guglie, e ancora la complessa simbologia delle bibbie pietrificate in scenica concrezione sui portali enormi.
L’esigenza materiale di esistenza, cioè la struttura, in uno con quella postulata dalla sua destinazione, diventa contenuto intrinseco. Anziché alla forma in modulazioni astratte e autonome, il fatto estetico è qui demandato a tali esigenze che si trasfigurano in sintesi estetica con una forma non già libera, ma modulata a loro immagine e somiglianza.
Nell’esempio citato è significativo come il sentimento ispirato da questo cosciente contenuto celebrativo e costruttivo, teso all’avventura di un continuo separamento di uno spazio modulato in ascendenza, culmini, con relativi crolli, a cinquanta metri in chiave della cattedrale di Beauvais. Agli intransigenti epigoni ancor chiusi nella sfera apollinea di classicistiche estetiche formali, per i quali l’espressione di quest’ansia non dovrebbe entrare in conto di valutazione estetica, vien fatto di chiedere quale sarebbe l'argomento critico atto a distinguere qualitativamente una cattedrale di Beauvais di statura normale da una, per astrazione, ridotta alla proporzione di un chiosco da giornali. In base ad analoghe considerazioni e conclusioni si possono siglare le opere di spirito romantico nell’architettura moderna: da quelle di Morris, Berlage, Sant'Elia, a quelle di Perret, Gropius, Mendelsohn, Wright e ancora, per finire in casa, del primo Terragni e Nervi, sempre insistendo sul valore schematico di prevalenza e di prima approssimazione critica di queste inclusioni; come ricordo, lo stato puro non esiste in realtà. In quest’ultima esemplificazione, sempre all’opposto di quanto abbiamo verificato nell’architettura classica, la forma non vive esteticamente autonoma, ma bensì in funzione di quel contenuto che è occasione o condiziona materialmente l’esistenza dell’opera.
Come ho osservato nell’esempio parallelo del gotico la funzione non è solo riferibile ad un fatto struttivo o fisiologico della costruzione, ma ancora può estendersi, con meccanismo associativo simbolico, a una esigenza celebrativa, oratoria, o comunque intesa ad esprimere un modo materiale o spirituale di concepire la vita, o l’aspirazione di rappresentarvisi in questo modo: il fatto estetico si esprime attraverso il sentimento, l'accento batte sul contenuto.

Se ora consideriamo le caratteristiche che distinguono il linguaggio classico dal romantico ritroviamo immediata l’opposta polarità del loro spirito.
All’estremo del linguaggio classico la comunicazione avviene attraverso uno stimolo ai sensi che non implica alcuna operazione logica o convenzione razionale. Il comune principio di riferimento procede da un’esperienza psicofisiologica, pur sempre perfettibile, ma innata e istintiva in ciascun uomo: il meccanismo è diretto.
Un esempio tra gli infiniti: la ripetizione alterna o combinata di elementi volumetrici o spaziali disuguali stabilisce un principio di ritmo dove il verificarsi di quanto l’esperienza visiva precedente attende darà una forma primordiale di piacere che, fatto individuo dall’artista, diventerà piacere estetico.
Il linguaggio diretto sfuma in quello analogico dove la comunicazione è condizionata dal rapporto per similitudine e « simpatia » tra le forme dei nostri moti interiori e quelle del soggetto estetico; a questo ordine di vocaboli appartiene tutta la simbologia interpretabile senza l’ausilio di chiave razionale: un elemento sensibile, ad esempio una linea, variamente modulata in curve e spezzate, può esprimere dolcezza, violenza, rapidità, asprezza, o comunque definirsi nelle più sottili caratterizzazioni.
Attraverso altre infinite forme intermedie, al polo opposto si può caratterizzare il linguaggio romantico, dove la comunicazione avviene a mezzo di vere e proprie forme algoritmiche, simboli la cui interpretazione implica una operazione logica e una cultura, così come per la lettura di un vocabolo occorre conoscere il significato semantico indipendentemente dalla sua collocazione estetica nel contesto: il meccanismo è associativo, indiretto. Un esempio elementare: l’impressione di forza, leggerezza, audacia e quant'altro di una struttura, implica la nozione e perciò una cultura sulla resistenza dei materiali, cultura che si può raffinare fino all’intelligenza dei modi con i quali queste resistenze sono combinate non solo, ma intuitivamente esaltate al di là della razionalità di un calcolo.
Gli esempi possono ancora estendersi alla considerazione di necessità di una cultura sociale, storica, religiosa, in definitiva della civiltà dal cui gusto l’opera è sorta.
Ed è ai fini della ricerca di quei fatidici comuni denominatori ai quali ho accennato, atti a distinguere inizialmente lo spirito classico dal romantico, che ritengo fecondo questo esame dei linguaggi nei modi che sopra ho schematizzato. Esame certo più immediato, e soprattutto meno passibile di errori, di quello basato sulla tradizionale e macchinosa considerazione di forma e contenuto.
Al profilo di questo orientamento, il problema del Barocco, dove il linguaggio classico si esalta dinamicamente in continuo divenire, si risolve come espressione esteticamente positiva del trapasso dall’età classica a quella essenzialmente romantica « delle invenzioni e scoperte ».
Nel neoclassico, dove il « disegno » classicista è assunto culturalmente come vocabolo in funzione rappresentativa di una grandezza imperiale di recente data, e dello snobistico vagheggiamento di una borghesia alle prime armi, troviamo lo spirito romantico.
Nell’eclettismo, dove addirittura stili differenti sono assunti culturalmente in blocco a funzionare come simbolici vocaboli di un gusto contingente parallelo, analogamente troviamo lo spirito romantico in una sua espressione deteriore.
Nelle poetiche del funzionalismo e del « razionalismo », con paradosso apparente, troviamo sempre gli spiriti del romanticismo: la tecnica, intelligibile per cultura, è fatta vocabolo a esprimere ed esaltare la dinamica della funzione, del pratico operare, del divenire della vita in uno con l’imponenza dei suoi problemi organizzativi.
Non a caso mi sono indugiato a schematizzare spirito classico e romantico e discendere a paralleli con l’architettura attuale. I confronti potrebbero estendersi a tutte le arti contemporanee, con la constatazione di un iato imponente tra il gusto degli autori e quello del pubblico. È questo dualismo un aspetto assolutamente nuovo nella storia della società, denunciato squisitamente dall’architettura, in quanto l’esistenza di questa è condizionata in modo imponente dalle istanze di quel pubblico che è committente in contrasto con lo spirito degli autori.
Se l’artista autentico non può che esprimere un ideale differente da quello della maggioranza della società di cui è parte, non vi è da concludere, con ovvi passaggi, che per una frattura dell’unità interiore, per una crisi non solo, ma ancora per una cosciente rinuncia, anzi evasione dello spirito dai problemi da questa.
Non è più qui il luogo per legittimare la validità di uno spirito classico o romantico conviventi in qualsiasi tempo, l’attuale compreso, come ho esemplificato, ma bensì per accusare come non architettura il conformismo di quelle forme indiscusse, anzi volute, specchio dell’evasione dell’uomo da se stesso, della paura e negazione del suo presente, e per contro tendenti verso un edonismo rievocante forme di vita per lui perdute e pur sempre vagheggiate come sogno velleitario. Anche « l’architettura moderna » è divenuta, oggi, retorico frammento di un gusto.
Il « dirigente » di una grande industria pontifica: « Il “ palazzo ” dei miei uffici sia in stile moderno, le automobili aerodinamiche, ma la mia casa, dove vivo, sia barocca, neoclassica, con qualche autentico Luigi e con qualcosa, ma non tutto, in moderno ». Un diplomatico straniero presenta in magnificenza la sua casa: « Ho voluto vivere nell’atmosfera e nel dilettamento delle grandi corti d’altri tempi ». Anche questa una frase autentica che può ben riassumere l’invidiato ideale di una maggioranza « arrivata », è indifferente se di qua o al di là dell'Oceano.

Come una prolusione non è accademia, ma bensì introduzione didattica, inviterò a concludere, a dispetto delle circostanze, con quella che oggi ritengo essere la norma fondamentale della « composizione architettonica »: pensare l'architettura nella sua essenza, cioè con lo spirito del suo significato etimologico, rimosso ogni riferimento convenzionale, abitudine della mente, a questa o quella architettura non solo del passato, ma anche e soprattutto del presente, sia pure nelle sue più raggiunte accezioni.
Al di là di ogni loro polemica e delle loro espressioni, inimitabili, siano classiche o romantiche, questa è in essenza la lezione di libertà e di anticonformismo dei maestri dell’architettura attuale, da Le Corbusier a Wright.
Quella fulgurazione che trasfigura una costruzione in opera d’arte è al di fuori di ogni insegnamento e di ogni volontà, nasce però da uno stato di grazia che può «brillare» solo a condizione che si possiedano quegli strumenti di comunicazione e relativa tecnica d’uso, che altro non sono che il linguaggio, modulabile in quegli estremi più ampi e sempre validi ai quali ho accennato.
Le fonti del linguaggio architettonico non sono inaridite; di continuo sono ricreabili, differenti e in armonia con il divenire irripetibile di noi stessi. Nasce quindi un invito alla cultura, tecnica nel suo significato più ampio, cioè umano e non solo meccanico, e insieme invito ad essere moralmente se stessi con quella libertà che dell’arte non è condizione sufficiente, ma fondamentale.